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La riabilitazione post-chirurgica non è un percorso obbligato, ci sono dei casi in cui è indispensabile come per la chirurgia della spalla o per la protesi del ginocchio piuttosto che per la ricostruzione dei legamenti crociati, altri casi in cui è semplicemente indicata come la protesi di spalla ed alcuni esiti di frattura altri ancora in cui è raramente suggerita come per la pulizia dei menischi o la correzione dell’alluce valgo.

La riabilitazione moderna esce dai vecchi schemi protocollati e si affida a delle regole che fungono da paletti entro i quali ci si può muovere per poter proporre la terapia più individuale possibile in cui le peculiarità ed aspettative del paziente possano esser sfruttate per raggiungere l’obiettivo comune, ed allo stesso tempo intimo e personale, del livello più alto possibile di qualità di vita.

La chirurgia attualmente è in rapido divenire. Se da una parte concettualmente l’obiettivo rimane pressoché invariato, dal punto di vista tecnico i materiali, le vie di accesso e le strumentazioni portano delle variazioni che interessano anche l’ambito riabilitativo ove il fisioterapista deve conoscere le esattezze delle scelte fatte dal chirurgo.

Anche la riabilitazione è inserita in un percorso che ha visto recentemente l’abbandono, in termini generalizzati, dei presidi di stasi come gesso, tutori ed allettamento, a favore di una tipologia che veniva chiamata aggressiva e meno cauta mentre oggi si rivela come la più esatta soprattutto perché in grado di ridurre i danni secondari dell’immobilità. Tale risultato è il prodotto di anni di esperienza che hanno portato, a partire dai tentativi più cauti, il grezzo, a limare la terapia più veloce e corretta possibile come fosse un vestito su misura.

Caratteristica specifica dell’atto chirurgico è quella di portare delle modifiche anatomiche alle strutture su cui si interviene. Questo modificherà presumibilmente l’organizzazione fasciale del paziente e tutta una serie di elementi peculiari relativi l’intervento. In base a ciò la prima cosa importante da realizzare è quella di non aver l’aspettativa di tornare come prima: il post-chirurgico potrà esser meglio, peggio o uguale, ma sicuramente diverso.

In questa dispensa prenderò in esame solo alcune delle più diffuse riabilitazioni post-operatorie. Assieme a queste quasi tutte le situazioni hanno dei momenti cadenzati in cui si cercano degli obiettivi intermedi.

a) Nella fase acuta: si mira alla remissione di tutte le manifestazioni infiammatorie. Rimarranno importantissime le indicazioni del chirurgo per quanto riguarda l’uso di tutori, ortesi o altri presidi. E’ la fase in cui ci si relaziona con l’uso di farmaci per controllare l’infiammazione, ridurre le probabilità di trombi o per regolare valori anomali. Hanno la precedenza il controllo del gonfiore, delle cicatrici, dell’ematoma, della temperatura ed altre manifestazioni metaboliche.

b) Nella fase riabilitativa, quella più impegnativa, si vogliono eliminare i problemi di tipo:

  • Primario: il recupero dell’elasticità dei tessuti, del range di movimento delle articolazioni, dell’esecuzione delle attività motorie ma anche del dolore stesso.
  • Secondario: sono quegli aspetti non correlati direttamente con la sede chirurgica ma che si sono modificati in seguito a questa. A riguardo spesse volte ci si trova a dover ripristinare lo schema del passo, una postura corretta, una gestualità congrua, piuttosto che ricondizionare apparati metabolici come quello cardiaco o polmonare.
    E’ in questa fase che si chiederà molto impegno al paziente adoperando ogni possibilità che possa offrire la palestra o la piscina.

c) Nella terza fase: si raccolgono i risultati in cui si confronta il lavoro svolto con le aspettative e con le attività professionali o sociali. E’ in questo momento che si renderà probabile stabilire il danno residuo, le limitazioni future o i condizionamenti, se vi sarà bisogno di mantenere delle attenzioni particolari o delle cure.
Rimane assoluto da parte del riabilitatore conoscere l’operazione sostenuta dal paziente, la situazione pre-operatoria e soprattutto le indicazioni ed osservazioni del chirurgo ordinarie, sotto forma di referto di dimissione e controlli periodici, o straordinarie nel caso ci fosse bisogno di confronti o sorgessero dubbi, complicanze o altri eventi che potrebbero interferire con la ripresa del paziente.

 

ARTROPROTESI D’ANCA

La protesi d’anca rappresenta uno dei maggiori successi della moderna ortopedia in quanto consente ai pazienti affetti da numerose patologie invalidanti di migliorare la loro qualità di vita ripristinando la funzionalità articolare e abolendo la sintomatologia dolorosa.
L’intervento costituisce una soluzione sempre più diffusa per numerose patologie invalidanti, come l’artrosi, l’artrite reumatoide e le fratture del collo del femore, condizioni che coinvolgono prevalentemente, ma non solo, le persone anziane.
Negli ultimi anni il numero di impianti di protesi articolari è apparso in costante aumento anche in realtà culturali e sociali molto diverse fra di loro quali gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Gran Bretagna, la Svezia e la Norvegia.
Come prevedibile, un tale incremento numerico comporta un aumento della spesa sanitaria che però rimane giustificato dalla dimostrazione che la sostituzione protesica è un intervento efficace nel trattamento delle maggiori patologie dell’anca.

ANATOMIA DELL’ ARTICOLAZIONE

L’articolazione dell’anca realizza la connessione tra il tronco e gli arti inferiori ed è la più grande del corpo umano. Tale articolazione è costituita da una cavità presente nel bacino, l’acetabolo e in una testa del femore. Entrambe le superfici di queste strutture sono ricoperte da uno strato di cartilagine il quale permette il loro scorrimento con minimi attriti, rendendo l’articolazione molto mobile e fluida. Tutta l’articolazione è avvolta da una capsula costituita da un robusto tessuto del tipo connettivale. Il rivestimento interno è costituito da una membrana sinoviale che produce un liquido vischioso utile a lubrificare le superfici cartilaginee a contatto, aumentando la loro scorrevolezza e creando tra di loro un cuscinetto ammortizzante che riduce le enormi forze cui è sottoposta l’articolazione nella normale vita di un individuo. Alcuni legamenti collegano i capi articolari che sono stabilizzati dai muscoli e tendini che realizzano il movimento.

L’artrosi dell’anca è caratterizzata da una perdita progressiva della cartilagine articolare con uno spazio articolare ridotto e doloroso. La rigidità facilita lo sviluppo di osteofiti (speroni ossei), che in seguito portano ad ulteriore rigidità, rendendo difficile per il paziente indossare calze e scarpe. Questa eventualità conduce ad un quadro generale di “accorciamento”, deformità in adduzione e rotazione esterna dell’anca, spesso con una retrazione in flessione. La perdita di materiale osseo avviene di solito lentamente, mentre nella necrosi avascolare può avvenire molto rapidamente.

INDICAZIONI ALL’INTERVENTO

L’indicazione all’intervento di artroprotesi d’anca è andata modificandosi con il passare del tempo. All’inizio erano preferiti pazienti di età intorno ai 70 anni, in buone condizioni generali, con grave artrosi dell’anca. A tutt’ oggi la selezione deve tenere conto di tre fattori: il dolore, il tipo e la gravità della patologia. Di fatto la scelta chirurgica deriva spesso dalla valutazione dell’intensità del dolore e del grado di limitazione dell’articolazione.

Tutto questo influenza la normale vita di relazione, impedendo le più semplici attività quotidiane. Si può anche giungere alla perdita della deambulazione autonoma. I provvedimenti dello specialista, nelle fasi iniziali del danno articolare, si limitano a consigli di carattere pratico quali la correzione di un eventuale sovrappeso e la diminuzione dell’attività fisica, oltre alla prescrizione di farmaci ed alla fisioterapia.

Quando il danno articolare è evoluto i provvedimenti suddetti diventano insufficienti e si impone il trattamento chirurgico. La forma di patologia per la quale si esegue il maggior numero di interventi di protesi d’anca è la osteoartrosi, sia primitiva che secondaria a displasia congenita, coxa vara, epifisiolisi della testa femorale o altro. Nell’artrite reumatoide e nella spondilite anchilosante la protesi è spesso l’unica soluzione in pazienti giovani (possono essere operati malati di 20-30 anni).
Controindicazioni specifiche all’intervento sono date da un’infezione in atto o recente oppure da condizioni predisponenti ad una eventuale infezione (ferite, micosi, escoriazioni ecc.). Nel periodo che intercorre tra l’indicazione all’intervento chirurgico ed il ricovero, il paziente (che fornirà tutti i dati anamnestici necessari) seguirà le indicazioni dello specialista ortopedico: calo ponderale, astensione dal fumo, eventuale uso del bastone, antidolorifici e fisioterapia.

TIPI DI INTERVENTO

Esistono tre tipi di intervento di sostituzione protesica dell’anca: la sostituzione parziale (endoprotesi), che prevede di preservare l’acetabolo o cotile naturale, utilizzata quasi esclusivamente in caso di frattura del collo del femore o per pazienti relativamente giovani; la sostituzione totale (artroprotesi), che prevede di intervenire su entrambe le componenti articolari femorale e acetabolare, ed infine il reintervento (revisione) che prevede la sostituzione di una protesi precedentemente impiantata. Una protesi d’anca può essere formata, in senso disto-prossimale, dai seguenti componenti: stelo, collo, testina, inserto e coppa acetabolare (o cupola nel caso di un’ endoprotesi).

Le protesi possono essere classificate anche in base alla metodica utilizzata per ancorare l’impianto all’osso. In questo caso si distinguono protesi cementate e non cementate.

Se si cementa bisogna inserire una sostanza acrilica con stabilità immediata, differentemente è possibile non usare il cemento e fissare meccanicamente a pressione o per crescita osseo usando una superficie porosa della coppa cotiloidea.

Un’altra caratteristica distintiva è data dall’accoppiamento. Con questo termine si intende l’abbinamento di materiali tra la testina femorale e l’interno della coppa: metallo-polietilene, ceramica-polietilene, ceramica-ceramica e metallo-metallo.

Ulteriori suddivisioni possono riguardare il diametro della testina, la tecnica di cementazione e molte altre variabili specialistiche, oltre a dettagli di tecnica chirurgica.

CONSIGLI UTILI PER IL PAZIENTE OPERATO DI PROTESI D’ANCA

Prima dell’operazione è consigliabile preparare la casa in modo che il bagno e tutta una serie di servizi siano facili da raggiungere. Eliminare tutte la possibilità dell’uso delle scala ma anche di tappeti o altri intralci pericolosi. Procurarsi un alza-water, una sedia alta e fare in modo di alzare il letto magari utilizzando un altro materasso. La prima difficoltà impegnativa dopo la dimissione è salire in auto. La soluzione del problema è piuttosto semplice in quanto è sufficiente abbassare lo schienale e, con la gamba extra-ruotata, ci si può stendere di lato.
L’uso delle stampelle è raccomandato per due mesi durante i quali la deambulazione è permessa in quantità moderata così come l’attività fisica.

Da seguire per le prime 6-10 settimane (due mesi circa) dopo l’intervento di protesi d’anca.

I seguenti consigli servono ad evitare la lussazione della protesi, cioè lo spostamento della testa del femore dalla sua articolazione. Durante le prime 6-10 settimane il rischio di lussazione è elevato perché i tessuti non si sono ancora perfettamente consolidati. Esistono posizioni dell’arto inferiore che sono particolarmente pericolosi per provocare questa evenienza.

In particolare la flessione dell’anca operata ad angolo retto o la rotazione dell’arto operato all’interno può provocare la lussazione dell’anca.

Vi sono tre movimenti da NON FARE:
  • accavallare l’arto operato sull’altro
  • chinarsi in avanti quando si è seduti
  • chinarsi a raccogliere qualcosa da terra con il ginocchio esteso, nel caso si può usare una pinza raccatta-oggetti e per indossare le scarpe si può usare un calza-scarpe

Di seguito vengono elencate le norme generali, le posizione sconsigliate e quelle invece utili per favorire una rapida guarigione.

Si consiglia inoltre l’esecuzione degli esercizi che il fisioterapista insegnerà da effettuarsi più volte al giorno, ricordando che il recupero della forza e della funzione dell’arto operato dipende innanzitutto dall’impegno del paziente.

In termini generali fin d’ora si può dire che bisogna individuare un corretto bilanciamento tra la deambulazione, che indurisce l’articolazione (crea stiff- ness), e gli esercizi che tendono ad allentare la tensione periarticolare. E’ corretto svolgere le due attività in modo alternato molto spesso durante la giornata ma con brevi somministrazioni.

Tra le attività che il fisioterapista proporrà, oltre agli esercizi specifici, bisogna dare importanza particolare alla cyclette che, per quanto aspecifica, il paziente spesso fa volentieri perché avverte dei vantaggi con poco impegno ed allo stesso tempo si ricondiziona fisicamente e sviluppa buone qualità muscolari con l’articolazione in scarico.

Norme generali

E’ consigliabile non aumentare di peso e, se si è in sovrappeso, cercare di dimagrire.

Infatti il peso eccessivo del corpo sovraccarica la protesi ritardando il recupero della funzione dell’arto inferiore dal lato operato.

Prevenzione delle trombosi venose (TVP) tramite l’uso di eparina normalmente raccomandata dai chirurghi. L’immobilità causata dall’intervento e l’intervento stesso favoriscono l’insorgenza di trombi delle vene dell’arto inferiore dal lato operato. La TVP venosa può determinare embolia polmonare che rappresenta un’emergenza medica. Le malattie tromboemboliche sono la causa più frequente di complicazioni gravi dopo protesi totale d’anca. La mortalità causata da embolo nei pazienti con TVP che non ricevono farmaci di profilassi è 5 volte superiore a quella che si ha dopo un intervento addominale o toracico. È la causa più comune di morte entro 3 mesi dall’intervento. Il 29% dei trombi si sviluppava entro 12 giorni e il 23% fra 12 e 24 giorni dopo l’intervento.

Dormire a letto
  • non appoggiarsi sul fianco dal lato operato
  • porre un cuscino in mezzo alle gambe mantenendo le ginocchia lievemente
  • non flettere il busto in avanti per rimboccarsi le coperte a Se necessario chiedere aiuto ad un familiare o utilizzare, se disponibile, una pinza raccogli-oggetti.
  • non ruotare all’interno l’arto operato: le ginocchia non devono mai “guardarsi”.
  • non incrociare le gambe
Trasferimento in automobile

Non guidare durante le prime sei settimane.

In automobile come passeggero il paziente non deve sedersi nel modo usuale con l’anca flessa a 90° perché, in caso di brusca frenata, si può verificare la lussazione posteriore della protesi.
Se la vettura è a 4 porte, il paziente si siede semi-sdraiato sui sedili posteriori con 2 cuscini sotto la testa e le spalle.
Se il paziente deve sedersi di fianco al guidatore, lo schienale deve essere reclinato completamente ed il paziente si mette in posizione semisdraiata con 2 cuscini sotto la testa e le spalle.

Alzarsi dalla sedia

Evitare di flettere il busto in avanti per alzarsi dalla sedia.
La maniera consigliata è quella di far scivolare le natiche fino al bordo della sedia e poi alzarsi.

Seduti sulla sedia
  • mantenere le gambe lievemente divaricate
  • non accavallare mai le gambe
  • evitare di stare seduti per più di un’ora. E’ meglio alzarsi o estendersi ogni 15 minuti.

Sulla poltrona – davanti alla TV non sedersi su poltrone con cuscini molli. In poltrona controllare che le ginocchia non superino in altezza il livello delle anche. Per ridurre il dislivello utilizzare un cuscino a cuneo sotto le natiche con la parte più alta rivolta posteriormente.

Sul water

Si consiglia di sedersi solo su water con sedile rialzato e con la parte posteriore più alta di quella anteriore. Esistono in commercio alza-water da adottare al proprio domicilio.
Per alzarsi dal water valgono le stesse regole descritte per alzarsi dalla sedia. In particolare bisogna controllare che nell’effettuare tale movimento le spalle siano sullo stesso piano frontale delle anche e non anteposte

Salire e scendere le scale

Esiste un modo di dire che serve a memorizzare il modo di salire e scendere le scale:

  • salire le scale: l’arto “buono sale in paradiso”. I gradini si salgono sempre portando avanti l’arto non Poi si portano su le stampelle ed infine è l’arto operato a terminare il passo.
  • scendere le scale: l’arto “cattivo scende all’inferno”. Si scendono i gradini portando avanti sempre l’arto operato. Le stampelle vengono posizionate sul gradino inferiore, si porta avanti prima l’arto operato e poi quello sano.
Camminare
  • si consiglia di continuare ad utilizzare le stampelle o il

girello fino al controllo ambulatoriale dove si otterrà il parere favorevole dello specialista.

Per quanto riguarda il cammino e la concessione del carico libero esistono delle differenze a seconda del tipo di protesi:

  • protesi cementate: questo tipo di protesi consente di sospendere l’uso del girello o delle stampelle dopo 6 settimane dall’intervento (circa un mese e mezzo). Dopo si consiglia l’utilizzo di un bastone da passeggio dal lato non operato per 4-6
  • protesi non cementate: questo tipo di protesi non consente la sospensione dell’utilizzo del girello o delle stampelle prima di 12 settimane (circa 3 mesi). Dopo si consiglia l’utilizzo di un bastone da passeggio dal lato non operato per 4-6 mesi.

– si consiglia di guardarsi spesso allo specchio mentre si sta in piedi e si cammina per fare attenzione alle asimmetrie del passo: il movimento deve essere uguale per tutti e due gli arti inferiori e le spalle devono essere allineate sullo stesso piano.

Attività quotidiane

Tutte le attività come lavare i piatti, stirare, spolverare ecc. che comportino la flessione del busto in avanti devono essere evitate. Il piano di lavoro per svolgere tali attività deve essere all’altezza giusta per permettere l’allineamento delle spalle sullo stesso piano frontale delle anche. Le spalle non devono essere anteposte rispetto alle anche.
Per rifare i letti si consiglia si mettersi in ginocchio con un cuscino sotto alle ginocchia.

Tutti questi suggerimenti servono a garantire che l’intervento a cui si è stati sottoposti continui a dare risultati soddisfacenti nel corso degli anni. Una protesi danneggiata, come un’automobile rotta, va sostituita e può rendersi necessario un nuovo intervento

Trattamento dei problemi dopo un intervento di PTA

1. Segno di Trendelenburg (ipostenia degli abduttori d’anca)

  • Concentrarsi sugli esercizi di abduzione dell’anca per rafforzare gli
  • Misurare la dismetria degli arti

2. Retrazione dei flessori dell’anca

  • EVITARE di mettere un cuscino sotto la ginocchia dopo l’intervento.
  • Camminare all’indietro serve per stirare i flessori contratti. Eseguire una “manovra di Thomas” 30 volte al giorno (5 stiramenti 6 volte al giorno). Dalla posizione supina, portare il ginocchio dell’arto sano sul torace. Spingere l’arto interessato dall’intervento in estensione verso il letto, procurando così uno stretching della parte anteriore della capsula e dei flessori dell’anca dell’arto interessato.

Difetti della deambulazione

Le alterazioni della deambulazione devono essere evidenziate e corrette. Si sottolinea come la maggior parte dei difetti della deambulazione sia causata o contribuisca alle deformità in flessione dell’anca. Pertanto un’eventuale dismetria postoperatoria degli arti va corretta.

Il primo e più comune difetto della deambulazione si verifica quando il paziente esegue un passo anteriore lungo con l’arto interessato e un passo anteriore corto con l’arto sano. Il paziente fa questo per evitare l’estensione dell’anca operata, che causa una sensazione di tensione a livello del pube. Il paziente deve imparare a concentrarsi nel fare passi anteriori più lunghi con la gamba sana.

Un secondo frequente difetto della deambulazione si ha quando il ginocchio del paziente cede nella seconda fase dell’appoggio: anche questo si verifica per evitare l’estensione dell’anca. La flessione del ginocchio è associata da una prematura ed eccessiva elevazione del tallone nella seconda parte della fase di appoggio. Bisogna insegnare al paziente a mantenere il tallone a contatto con il suolo nella fase terminale dell’appoggio.

Un terzo difetto frequente della deambulazione si verifica quando il paziente si china in avanti a livello del bacino nelle fasi intermedia e finale dell’appoggio. Ancora una volta, il paziente sta tentando di evitare l’estensione dell’anca. Per correggerlo, bisogna insegnargli a spostare in avanti la pelvi e indietro le spalle durante le fasi intermedia e finale dell’appoggio.

Talvolta, un ulteriore difetto si presenta sotto forma di un’abitudine difficile da eliminare, la zoppia. Un ausilio utile nella rieducazione della deambulazione è uno specchio grande, perché permette ai pazienti di osservarsi mentre camminano nella sua direzione. Tutti questi errori della deambulazione vengono corretti con l’osservazione e l’insegnamento.

LINEE GUIDA PER LA RIABILITAZIONE POST CHIRURGICA NELLE ARTROPROTESI DI GINOCCHIO

Artrosi del ginocchio

Premessa clinica

L’artrosi del ginocchio può essere imputabile a molte cause, come deformità congenite (assiali o rotatorie), traumi e artrite reumatoide. L’80% dei pazienti sviluppa un’artrosi del compartimento mediale e quando l’osso comincia a degenerare si determina un varismo. Il 5-10% sviluppa invece un’artrosi del compartimento laterale del ginocchio, che porta al valgismo

Classificazione

La deformità artrosica del ginocchio viene classificata come varismo o valgismo (con o senza coinvolgimento sintomatico della rotula). L’artrosi femororotulea è frequente in un ginocchio artrosico, ma è sorprendentemente rara come fonte primaria di sintomi.

Il danno della superficie articolare è stato classificato in vari modi, ma le categorie più usate sono: minimo, in cui non vi è restringimento dello spazio articolare (visibile radiologicamente); lieve, in cui vi è perdita di un terzo dello spazio articolare; moderato, in cui due terzi dello spazio articolare sono persi; grave, in cui vi è contatto tra osso e osso.

Diagnosi

Per esaminare un ginocchio con sospetta artrosi, bisogna muovere l’articolazione sotto carico (ad es., per esaminare il compartimento mediale viene applicata una forza in varismo al ginocchio mentre viene mosso). Mentre si applica questa forza si potrà avvertire sotto la mano un crepitio e sarà provocato dolore. Si deve esaminare il ginocchio alla ricerca di un’eventuale lassità del legamento collaterale e in alcuni casi dei legamenti crociati, sebbene ciò sia meno importante. Si deve annotare la presenza di una deformità fissa in flessione (ad es., la perdita dell’estensione passiva del ginocchio). La posizione della rotula (centrale o sublussata) è importante, così come la presenza di deformità in rotazione della tibia. Quando il paziente sta in piedi, si nota se esiste un varismo o un valgismo del ginocchio.

Alla fine del nostro esame clinico del ginocchio artrosico abbiamo ottenuto le seguenti informazioni:

 

  1. Localizzazione dei sintomi
  • Isolati (mediale, laterale o femororotuleo)
  • Diffusi
  1. Tipo di sintomi
  • Tumefazione
  • Cedimento, instabilità (legamento lasso o ipostenia del quadricipite)
  • Riduzione della mobilità passiva
  • Sintomi meccanici (crepitii, blocchi, conflitti e pseudoblocchi)
  1. Momento di esordio
  • Acuto
  • Insidioso
  1. Durata
  2. Fattori di esacerbazione
  3. Interventi precedenti (ad es., FANS, chirurgia) e risposta del paziente ai trattamenti

Valutazione radiografica del ginocchio artrosico

La valutazione dovrebbe sempre includere una proiezione anteroposteriore del ginocchio in stazione eretta (sotto carico). Se è contemplato un intervento, si deve eseguire una radiografia che comprenda l’intero arto inferiore (90 cm) per scoprire una qualsiasi deformità oppure un problema soprastante e sottostante quanto normalmente si può osservare in una radiografia standard (ad es., una deformità in valgo della caviglia). Si richiede una proiezione laterale della rotula.

Trattamento dell’artrosi di ginocchio

Conservativo

Il trattamento di un’artrosi precoce del ginocchio può essere efficace se viene effettuato coscienziosamente. Si deve sollecitare con energia una riduzione di peso, benché non ce la si aspetti nell’immediato. Il rinforzo del quadricipite fa una grande differenza: quadricipiti molto forti possono ritardare considerevolmente la necessità della chirurgia. Se la rotula è dolente, gli esercizi di estensione dovrebbero essere praticati solo nell’arco degli ultimi 20° di estensione. Attività quali accovacciarsi, fare piegamenti e salire le scale, che incrementano le forze di reazione a livello dell’articolazione femororotulea, aumentano il dolore e dovrebbero essere evitate. Se paziente parte con muscoli estremamente deboli, per iniziare il processo può essere utile l’elettrostimolazione. Le altre terapie fisiche, a parte il caldo e il freddo, non si sono dimostrate efficaci. Le iniezioni di acido ialuronico nel ginocchio sono di efficacia limitata: sembra siano più efficaci se utilizzate prima che si percepisca il crepitio osso contro osso. Studi di ricercatori indipendenti hanno dimostrato che le iniezioni di acido ialuronico apportano un beneficio uguale a quello che si ottiene con i FANS. Analogamente, l’iniezione di steroidi intrarticolari svolge solo un ruolo temporaneo e limitato.
Si è dimostrato inoltre che oltre l’85% dei pazienti con grave artrosi del comparto mediale ha risposto con successo all’uso di plantari con sostegno mediale.

Opzioni chirurgiche – ginocchio artrosico

La pulizia articolare in artroscopia non è mol- to utile e ha solo un effetto temporaneo: consiste in una semplice pulizia dei frammenti e dei bordi meniscali e in un’aspirazione dei versamenti arti- colari che contengono peptidi che provocano dolore. Sono però buoni i risultati nel tempo se vi si associa anche lo sbrigliamento.

L’artroplastica con perforazione e abrasione non sembra offrire ulteriori benefici. L’artroscopia è anche un mezzo molto sensibile per valutare la cartilagine articolare quando si contempli la possibilità

di eseguire un’osteotomia o un’artroplastica mono-compartimentale di ginocchio, visto che spesso una radiografia o la risonanza magnetica sottostima l’estensione del danno.

Numerosi fattori determinano la prognosi dopo lavaggio e sbrigliamento. Ne traggono il massimo beneficio i pazienti che si presentano con sintomi meccanici, di breve durata (<6 mesi), allineamento normale e solo una lieve o moderata presenza di artrosi all’indagine radiografica. Succede spesso che i pazienti abbiano speranze non realistiche, se portatori di deformità articolare, circa l’efficacia dello sbrigliamento artroscopico: pertanto, è importante informarli sulla limitazione delle indicazioni e sulla modestia dei risultati.

Protesi totale di ginocchio

Le linee guida per la riabilitazione sono linee guida generali e devono essere calibrate su ciascun paziente. Un’osteotomia concomitante o problemi ossei sono indicazioni per un carico limitato fino a quando la stabilità non sia stata raggiunta. Analogamente, se l’osso è osteoporotico, il carico completo è posticipato fino a quando non si sia formata la parte ossea intorno all’impianto.

Componenti quali il disegno della protesi, le modalità di fissazione, la qualità dell’osso e le tecniche chirurgiche condizionano la riabilitazione nel periodo perioperatorio. La scelta del tipo di impianto non condiziona la successiva riabilitazione. Non dovrebbe fare molta differenza che l’impianto sia libero, semilibero o bloccato.

Se è coinvolto un solo ginocchio, un recupero in fase postoperatoria di 90° di flessione del ginocchio è generalmente considerato il minimo per un ritorno normale alla vita quotidiana. Se invece sono coinvolte entrambe le ginocchia, è assolutamente essenziale che uno dei due raggiunga almeno i 105° di flessione al fine di rendere possibile al paziente di sedersi su una normale toilette.

Dopo l’intervento può essere utilizzata la mobilizzazione continua passiva (Kinetec), che però provoca un aumento dei problemi della ferita chirurgica. Inoltre, se il paziente viene sottoposto a lungo a questa mobilizzazione, tende a sviluppare una retrazione in flessione del ginocchio. Se deve essere utilizzata, il paziente deve essere tolto dall’apparecchio per parte della giornata e deve lavorare per raggiungere la completa estensione. Consigliamo di limitare l’uso aggressivo o prolungato del Kinetec nei pazienti con possibili problemi alla ferita chirurgica (come i diabetici o gli obesi).

Immediatamente dopo l’intervento, i pazienti spesso mostrano una contrattura in flessione dovuta all’emartro e all’irritazione dell’articolazione. Questa contrattura in flessione spesso si risolve con il tempo e con un’adeguata riabilitazione. Bisogna considerare che pazienti lasciati con una contrattura in flessione nel periodo chirurgico difficilmente raggiungono la completa estensione. È quindi importante che già in sala operatoria sia raggiunta la completa estensione.

Talvolta può essere necessaria una manipolazione sotto anestesia: è una decisione individuale del chirurgo. L’area in cui usualmente si creano aderenze è la tasca sovrarotulea. Molti chirurghi eseguono di rado manipolazioni sotto anestesia, pensando che il paziente sarà in grado di raggiungere lavorando la mobilità completa. La manipolazione differita sotto anestesia (dopo 4 settimane) richiede grandi forze e rischia di danneggiare seriamente il ginocchio. In alternativa può essere eseguita una lisi artroscopica dell’aderenza nella tasca sovrarotulea con un otturatore artro- scopico o con un piccolo sollevatore periostale.

La distrofia riflessa (algoneurodistrofia) del ginocchio è rara dopo una protesi totale di ginocchio e viene di solito diagnosticata tardi. I segni sono un dolore cronico presente 24 ore su 24, allodinia o dolorabilità della cute. Questi pazienti di solito non riescono a raggiungere una mobilità ragionevole e sviluppano una retrazione in flessione. Se si sospetta questa patologia, un blocco della conduzione simpatica a livello lombare deve essere considerato di valore terapeutico e non solo diagnostico e deve essere eseguito quanto prima possibile.

Protesi totale di ginocchio: indicazioni e controindicazioni

Le indicazioni per la protesi totale di ginocchio sono un dolore al ginocchio disabilitante con menomazione funzionale ed evidenza radiografica di artrosi significativa e fallimento delle misure conservative, inclusi gli ausili per la deambulazione (bastone), i FANS e le modificazioni dello stile di vita.

Controindicazioni alla protesi totale di ginocchio
Assolute
  • Infezione recente o recidivante –a meno di praticare una revisione della parte
  • Sepsi o infezione
  • Artropatia
  • Fusione solida di ginocchio dolorosa (le fusioni di ginocchio dolorose sono di solito dovute a La RDS non trae alcun beneficio dalla chirurgia).
Controindicazioni relative
  • Osteoporosi
  • Cattive condizioni di
  • Meccanismo estensorio non
  • Artrodesi ben funzionante e non
  • Disturbi significativi della vascolarizzazione

TIPI DI PROTESI

Le prime protesi articolari di ginocchio ad essere impiantate furono le cosiddette protesi a cerniera o a sistema vincolato, caratterizzate dal solo movimento di flessoestensione attorno ad un unico asse di rotazione.

La più recente evoluzione è rappresentata dalla protesi a scivolamento che possiede caratteristiche biomeccaniche molto simili a quelle fisiologiche, prevede l’integrità dei legamenti collaterali e consente il risparmio del legamento crociato posteriore. Le protesi a scivolamento possono essere impiantate solo nel caso in cui l’articolazione presenti una deviazione angolare non superiore a 18-20°, un deficit estensorio inferiore a 20° ed una flessione di almeno 80°.

L’impianto di protesi monocompartimentale è particolarmente indicato nei pazienti giovani affetti da fenomeni circoscritti (ad esempio nella necrosi asettica del condilo femorale) e rappresenta una valida altenativa all’intervento di osteotomia valgizzante o varizzante. Infine, di grande attualità in chirurgia ortopedica è la protesizzazione della femoro-rotulea, seppure disapprovata da alcuni Autori per l’alto rischio frattura della rotula, la pericolosa reazione tissutale al polietilene ed il fenomeno del metalback, ovvero il distacco della parte in polietilene dalla componente metallica della protesi.

L’ancoraggio con cemento, pur assicurando una stabilità iniziale maggiore e la precocità del trattamento postoperatorio, risulta meno durevole a causa della sua scar- sa resistenza alle forze di taglio e di trazione. Normalmente la si riserva per pazienti molto anziani. Le protesi non cementate richiedono invece più tempo per la fissazione dell’impianto, che può avvenire a Press-fit qualora lo stelo, a superficie liscia, sia sovradimensionato rispetto al canale di impianto o ad osteointegrazione, per invasione ossea vitale all’interno delle porosità della protesi. Le protesi “ibride” sfruttano le caratteristiche di entrambe, essendo generalmente cementato lo stelo tibiale e ad osteointegrazione la componente femorale.

Complicanze

Un importante obiettivo della riabilitazione nel periodo post-operatorio è la prevenzione delle complicanze che possono insorgere dopo l’intervento. Fra le precoci vi sono:
a) le trombo-venulo-patie, solitamente prevenute con una profilassi farmacologica
a base di anticoagulanti, con l’uso di bendaggi elastocompressivi o calze elastiche;
b) le contratture in flessione, che possono essere determinate da fattori strettamente biomeccanici, quali il protratto mantenimento di una posizione antalgica o lo stiramento sui legamenti collaterali da parte di un impianto debordante. Tuttavia, la retrazione dei tessuti molli può essere antecedente l’intervento;
c) la riduzione antalgica dell’escursione articolare, che può verificarsi nonostante la protesi articolare impiantata permetta un range articolare superiore. Una protesi semivincolata, ad esempio, consente una flessione di circa 90°-100°, mentre un impianto monocompartimentale può arrivare a 130°;
d) la lussazione o sublussazione della rotula, che si manifesta in modo evidente
nella flessione del ginocchio e rappresenta un grave ostacolo alla normale cinematica della protesi. Poichè l’adozione di un’ortesi di centramento non sembra garantire una sufficiente stabilizzazione, diventa spesso necessario un secondo intervento chirurgico di lateral release associato a plastica del vasto mediale ed eventuale tra- sposizione della tuberosità tibiale;
e)le calcificazioni periarticolari, complicanze peraltro rare, si organizzano solitamente a partire dalla sesta settimana dopo l’intervento e comportano sintomatologia dolorosa e riduzione dell’escursione articolare. Diventa pertanto utile una pre-venzione farmacologica nei soggetti predisposti;
f)la mobilizzazione di una componente dell’impianto, che rappresenta una grave complicanza tardiva e che impone il rispetto dell’evoluzione biologica dell’ancoraggio, evitando di sottoporre la protesi ad eccessive sollecitazioni e forze di taglio.

TRATTAMENTO RIABILITATIVO

Il programma di recupero articolare deve essere concordato con il chirurgo ortopedico in base al tipo di protesi impiantata, alla tecnica chirurgica eseguita ed alla presenza di esiti cicatriziali. E’ stato dimostrato che la mobilizzazione passiva con- tinua (CPM tipo Kinetic), iniziata precocemente, sia determinante per prevenire le complicanze, favorire il riassorbimento del versamento periarticolare e recuperare l’articolarità. A tale scopo vengono da tempo utilizzate apparecchiature elettriche che consentono di programmare la velocità e l’arco di movimento dell’articolazione. Alcuni Autori non hanno riscontrato tuttavia differenze significative tra i risultati ottenuti con questo tipo di trattamento e la sola mobilizzazione manuale, che deve essere condotta nel rispetto della cinematica della protesi impiantata, ponendo at- tenzione a non imprimere al ginocchio sollecitazioni in varo – valgo, specie dopo un intervento di riallineamento articolare. Per il recupero della flesso-estensione altri Autori suggeriscono l’uso di splint in materiale termoplastico che consentono lo stiramento prolungato e progressivo delle strutture retratte.
Al fine di evitare l’instaurarsi di aderenze post-chirurgiche responsabili del rallentamento dell’iter riabilitativo, è estre- mamente importante mobilizzare manualmente fin dai primi giorni la rotula, sia in senso longitudinale che, cautamente, in latero-laterale. Durante il periodo di degenza, nelle due settimane che seguono l’intervento, si cerca di raggiungere, qualora le condizioni del paziente, e il tipo di protesi impiantata lo consentano, una estensione completa ed una flessione di 90°. Può accadere che il paziente riferisca dolore femoro-rotuleo a causa di una lateralizzazione di rotula o a residue deviazioni sul piano sagittale antecedenti all’atto chirurgico. Il dolore in sede mediale può essere dovuto a microfratture dell’emipiatto tibiale in via di rimaneggiamento dopo la variazione dell’asse di carico, oppure a stati di tensione delle strutture capsulo-legamentose del compartimento mediale del ginocchio. La soglia di percezione del dolore sembra essere più elevata nei soggetti sottoposti ad anestesia epidurale: ciò favorirebbe un più rapido recupero articolare.

Qualora attraverso CPM, mobilizzazione manuale ed esecuzione di esercizi terapeutici specifici non si sia raggiunto un discreto range articolare entro 20 giorni circa, si può procedere con uno sblocco in narcosi, malgrado alcuni Autori lo considerino pericoloso per stravasi ematici, dolore post-anestetico e mobilizzazione della protesi.

I tempi di concessione del carico vengono in genere programmati in base al tipo di intervento eseguito, al modello di protesi impiantata, al sistema di ancoraggio utilizzato, alle condizioni dell’osso ed allo stato generale del paziente. In caso di protesi di primo impianto, ad esempio, vengono generalmente concessi 10 kg di carico fin dalla terza giornata, mentre per le protesi di revisione si rende necessario un periodo di carico sfiorante per circa tre settimane. In caso di artroprotesi cementata il carico può essere concesso da subito, compatibilmente con la tolleranza al dolore del paziente e la sua capacità di stabilizzazione del ginocchio. A due settimane dall’intervento, termine che solitamente coincide con la dimissione del paziente, le protesi cementate possono già sopportare un carico pressoché completo, mentre le ibride e le biologiche sono in grado di tollerare poco più del 50% del peso corporeo. Nel caso di protesi biologiche, infatti, il carico inizialmente concesso ha solo la funzione di stimolare l’osteogenesi, mentre, se elevato, potrebbe causare fenomeni di sanguinamento nell’interfaccia osso-protesi, con conseguente possibilità di futura mobilizzazione dell’impianto. Al termine del terzo mese, indipendentemente dal tipo di protesi e del fissaggio impiegati, viene comunque concesso il carico totale al paziente, che può così abbandonare l’uso delle stampelle.

Il recupero della stabilità dinamica del ginocchio neo-protesizzato viene garantita da un efficace, tempestivo ed appropriato reclutamento muscolare. Il recupero della forza muscolare può essere cominciato fin dai primi giorni utilizzando le contrazioni isometriche, che dovrebbero permettere, unitamente all’impiego del biofeedback, di ridurre la contrazione antalgica.

Anche l’impiego dell’elettrostimolazione muscolare, specie nel periodo post- operatorio, viene suggerita da alcuni Autori allo scopo di migliorare trofismo e forza degli estensori del ginocchio. Gli esercizi proposti per il rinforzo muscolare devono offrire al paziente appropriate resistenze, in condizioni meccaniche che simulino il gesto da rieducare. Durante il cammino, ad esempio, il quadricipite non solo interviene durante la fase di sospensione estendendo il ginocchio, ma viene anche reclutato in modalità eccentrica nella prima fase di appoggio per frenare la caduta del corpo e nella fase intermedia per mantenere il ginocchio in semiflessione. Nella fase di appoggio, inoltre, i movimenti delle leve ossee avvengono in catena cinetica chiusa, con sollecitazioni elevate per l’impianto protesico. E’ pertanto necessario proporre esercizi di rinforzo muscolare che simulino le condizioni meccaniche proprie della fase di appoggio, con un carico progressivamente maggiore.

Infatti, gli esercizi in catena cinetica chiusa eseguiti in stazione eretta utilizzando una pressa isotonica, garantiscono un rinforzo muscolare efficace ed un reclutamento specifico.

Inoltre, nel caso in cui l’innesto della protesi non preveda la conservazione di uno o entrambi i legamenti crociati, l’esecuzione degli esercizi in catena cinetica chiusa protegge, in parte, l’articolazione dalle forze che anteriorizzano la tibia durante l’estensione dai 30° ai 75° e da quelle che causano uno shift posteriore durante la flessione oltre i 75°-80°. Nella progettazione dell’esercizio occorre ricordare che non tutti i tipi di protesi tollerano le stesse sollecitazioni meccaniche: una protesi semivincolata a stabilizzazione posteriore, ad esempio non è in grado di sopportare i medesimi stress meccanici di una protesi a scivolamento non vincolata, perché sprovvista di legamento crociato posteriore che garantisca una certa stabilità antero-posteriore e impiantata su un ginocchio più problematico.

La protesi monocompartimentale che viene utilizzata solo in presenza del legamento crociato anteriore potrà sopportare carichi di lavoro ancora più elevati.

Infine, un corretto bilanciamento di flessori e rotatori di ginocchio è indispensabile, soprattutto qualora sia stata protesizzata anche la componente rotulea.

Non bisogna dimenticare inoltre con chi si ha a che fare. Il paziente è quasi esclusivamente una persona anziana molto spesso poco istruita sulla terapia intrapresa e poco preparata al periodo di riabilitazione ed alle attenzione e responsabilità da rivolgere all’impianto protesico.

L’obiettivo principe nella riabilitazione, una volta raggiunti i parametri base di recu- pero in termini biomeccanici e di stabilità è quello di rendere le attenzioni al ginocchio continue e sicure. E’ indispensabile in questo senso responsabilizzare il paziente e, nei casi in cui questo si riveli improponibile, coinvolgere la famiglia in modo particolare.

In quest’epoca la terapia protesica si rivolge ad una generazione abituata a concedere le cure del proprio corpo al medico e quindi alla pastiglia, alla puntura o all’operazione senza mai vivere la guarigione in prima persona come diventa invece, in questa occasione, indispensabile.

Nel programma di autogestione (quindi tutti gli anni che conseguono l’operazione ad esclusione dei primi mesi) bisogna assicurarsi una qualità e quantità di movimento adeguati, un’incidenza ponderale quanto più possibile idonea e soprattutto l’inserimento del nuovo schema corporeo in un quadro quasi sempre pluriproblematico per quanto riguarda l’arto controlaterale, la regione lombare, le anche e non ultime le caviglie/piedi attraverso particolari attenzioni o direttamente della fisioterapia.

Va ricordato al paziente che esiste un equilibrio tra le attività che andrà a svolgere basato soprattutto sulla sua personale esperienza ma che in generale rispetta la regola per cui camminare indurisce la gamba mentre gli esercizi la ammorbidiscono. Il paziente quasi sempre ritiene queste ultime pratiche particolarmente noiose e difficili, trova spesso di meglio da fare e le abbandona presto. E’ utile invece fin da subito valorizzare gli esercizi soprattutto in base ai risultati di breve termine ma soprattutto di lungo termine e magari sostituirli, con un pò di fantasia, nella pratica quotidiana con l’uso della bicicletta o meglio ancora con delle attività in piscina. I vantaggi, rispetto la deambulazione, di queste attività è quello di riuscire ad evitare il confronto con la forza di gravità e quindi l’uso continuo della compressione periarticolare a 360°. In particolare la pratica degli esercizi in acqua possono offrire vantaggi relativi l’uso della pressione idrostatica, la globalità del movimento e dell’organizzazione spaziale, le resistenze isocinetiche, le facilitazioni di scia e galleggiamento e non ultimo lo stato di rilassamento che induce una disponibilità da parte del paziente del tutto peculiare.

I vantaggi in acqua si riscontrano in ogni tipo di osservazione, dal punto di vista ematico, venoso, edemigeno, muscolare, articolare e psico-emotivo.

Sempre nel programma a lungo termine risulta vantaggioso rieducare il paziente alla gestione ed alla percezione del dolore in quanto spesso si ha a che fare con per- sone che ritardano di anni l’intervento tramite l’uso di farmaci e contratture protettive. Nel post operatorio bisogna addestrare il paziente a distinguere il dolore di tipo infiam- matorio ed articolare dalla semplice fatica o dal semplice tiro fasciale. Bisogna aiutarlo a riconoscere gli “antidoti” a queste difficoltà e ad usarli. Molto spesso è sufficiente fare alcuni esercizi che siano di mobilizzazione o stretching per veder scomparire quella che sembrava essere una sintomatologia ingestibile.

Una volta che il paziente ha risolto il primo periodo particolarmente carico di giornate e notti accompagnate da dolori è possibile, in un periodo in cui il rischio trombi è certamente escluso, mobilizzare insistentemente la cicatrice per prevenire aderenze tissutali e deformazioni fasciali che condizionano lo schema del passo e massaggiare con vigore il muscolo quadricipite per restituire la consistenza acquosa del muscolo.

Ultima attenzione che va gestita con particolare cura va data alle dismetrie. Spesso pazienti vistosamente vari o valghi escono dalla sala operatoria con la gamba sorprendentemente in asse ma con la controlaterale ancora torta. Questa situazione porta spesso all’uso della gamba più lunga (quasi sempre la protesizzata) in flessione andando a perdere i vantaggi di uno schema di movimento ottimale. Si interviene dunque con una correzione tramite solette

ESERCIZI

E’ovviamente improponibile provare a descrivere una ricetta di esercizi per mantenere sana la convivenza con la protesi. I migliori parametri sono sicuramente la soggettività della somministrazione, la corretta esecuzione, l’assenza di dolore, la variabilità (anche se programmi da ripetere sono più facili da ricordare ed eseguire).

Le priorità sono da lasciare agli esercizi che conservano e guadagnano la flesso-estensione e quelli che recuperano lo schema del passo sia con esercizi in deambulazione che in acqua. Rimangono ottime le proposte propriocettive ma bisogna prestare molta attenzione che non diventino pericolosi.

Perciò sono da riservare a pazienti con determinate attitudini e con esigenze congrue allo sforzo, assolutamente da proporre sempre sotto controllo.

Gli esercizi in sala attrezzi, a differenza di quelli a corpo libero, sono nettamente meno importanti in quanto l’ipertrofia è praticamente inutile (piuttosto, se si può, abbinare un vantaggio cardiologico-condizionante con l’uso del cardiofrequenzimetro).

ALLUCE VALGO

Quasi un adulto su tre soffre di alluce valgo, un disturbo che nei Paesi industrializzati è tra le cause principali di intervento chirurgico ortopedico. A patirne sono in particolare le donne – 10 volte più degli uomini – complici le calzature con tacco a spillo e punta molto stretta.

Anche l’uso di scarpe molto rigide può impedire la naturale flessione delle dita quando si cammina, perché la muscolatura del piede si indebolisce, facilitando la comparsa di alterazioni.

“Per alluce valgo” si intende una deformità per cui l’alluce devia verso le altre dita del piede giungendo. nei casi più gravi a sovrapporsi al secondo e al terzo dito, con conseguenze estetiche, ma soprattutto funzionali, invalidanti. A causa della lussazione dei sesamoidi (due ossicini che fungono da binari per l’articolazione

dell’alluce) la deviazione laterale del primo dito provoca una borsite da sfregamento contro la scarpa, cioè un’infiammazione caratteristica e molto dolorosa detta familiarmente “cipolla”.

A lungo andare, lo squilibrio prodotto nell’assetto del piede dallo spostamento dell’alluce può portare a lesioni ossee e articolari, a callosità e ulcerazioni nella parte anteriore del piede tali da provocare un dolore cosi intenso da impedire l’uso di calzature o, nei casi più gravi, l’appoggio del piede. Inoltre, la deformazione progressiva del piede, oltre a generare dolori, determina un appoggio alterato che può avere ripercussioni serie su altre strutture, quali ginocchia, anche e colonna vertebrale”.

Cause diverse

Le cause dell’alluce valgo sono molteplici e non ancora del tutto chiarite. La principale sembra essere di tipo meccanico: un sovraccarico e instabilità della parte anteriore del piede che deriva da una curvatura ridotta della pianta (piede piatto). Altre cause possono risiedere in eventi traumatici non curati in modo adeguato, in fenomeni infiammatori, disturbi della postura, debolezza a livello dei muscoli e dei legamenti del piede.

Calzature adatte

“Si distinguono forme congenite che si manifestano in giovane età e forme acquisite che compaiono più avanti nel tempo, in modo caratteristico nelle donne con più di cinquant’anni, e che in genere sono dovute all’uso di scarpe a punta stretta e col tacco alto. Per questo, il primo provvedimento è il cambio di calzature: sono indicate quelle a pianta larga e con tacco basso, massimo quattro o cinque centimetri, prive di cuciture o di tomaia troppo rigida, che provocano compressioni.

“Se non basta ad alleviare il dolore può ricorrere a plantari o a calzature ortopediche: ne esistono di diversi tipi, ma hanno tutti la funzione di raddrizzare l’alluce ed evitare un sovraccarico della parte anteriore del piede. Anche la fisioterapia è indicata. Ma si tratta di palliativi, in grado di rallentare l’evoluzione del processo senza farlo regredire. Nei casi più gravi, infatti, quando il dolore diventa insostenibile, non resta che ricorrere al bisturi.

Bisogna fare i conti anche con altre situazioni per cui anche se un alluce valgo non è di grosse dimensioni può comunque condizionare il funzionamento di tutto l’apparato locomotore.

La nuova posizione dell’articolazione costringe la persona a camminare in maniera scorretta, con il rischio di assumere posizioni sbagliate nel tentativo di non sentire il dolore. Tutta la colonna vertebrale risente della nuova situazione e con lei anche, ginocchia e l’altro piede. La velocità con cui il disturbo peggiora dipende dalla predisposizione naturale, dal tipo di vita che si conduce e dalle scarpe che si indossano.

ANGOLAZIONE ANOMALA

L’alluce valgo “piega” verso le altre dita del piede.

Il primo rimedio è adottare scarpe a pianta larga e con tacco non più alto di quattro o cinque centimetri.

LA CHIRURGIA

“Cento modi per darsi una raddrizzata”

L’esame radiografico permette di quantificare l’ampiezza in gradi della deviazione ossea e pertanto di programmare l’intervento chirurgico più appropriato: ogni alluce valgo, infatti, può essere differente dagli altri e l’età, il sesso, l’attività sportiva del paziente sono da tenere in conto per valutare la strategia dell’intervento. “Sono state messe a punto più di 100 tecniche chirurgiche per l’alluce valgo. Tutte però, sono in sostanza riconducibili a due procedure:

  1. La prima è detta “osteotomia di direzione”; consiste nel ridare il corretto orientamento al primo osso del metatarso (il gruppo di cinque ossa che costituiscono la parte anteriore del piede) ed è usata soprattutto per le forme familiari, che compa- iono in giovane età, già a venti anni.
  2. La seconda è detta “osteotomia falangea” : se il disturbo è presente da moltotempo (in tal caso tutto l’alluce è deformato ed è compromessa anche la parte anteriore del piede, che non appoggia più in modo corretto), si procede invece resecando la base della prima falange dell’alluce, accorciando in questo modo il dito e riposizionando i sesamoidi. In ultimo, si elimina il tessuto osseo in eccesso a livello della sporgenza della borsa.

In entrambi i casi la permanenza in sala operatoria è breve, oscillando dalla mezz’ora ai tre quarti d’ora. L’intervento può essere fatto in day-hospital, ma di solito sono necessari un giorno e una notte di permanenza in ospedale. I tempi di recupero sono variabili a seconda del tipo di intervento, ma è sempre possibile lasciare l’ospedale con le proprie gambe, utilizzando una calzatura ortopedica indicata dal chirurgo.

Di norma non vi è la necessità di usare stampelle e fin dai primi giorni si possono fare spostamenti autonomi in casa indossando un’apposita scarpetta con un’imbottitura nel territorio chirurgico.

Già alla seconda settimana, in occasione della visita di controllo il bendaggio viene ridotto e la deambulazione è più agevole poggiando tallone ed il bordo esterno del piede. Il divieto rimane solo per permanenze a lungo in ortostatismo con l’indicazione di passare molto tempo col piede sollevato.

Via via in occasione della rimozione del bendaggio si consigliano bagni con l’amuchina per ridurre il più possibile i rischi di infezione e l’uso dell’argilla verde per ridurre il volume edematoso.

LA PREVENZIONE

Oltre che con una buona scelta delle calzature la comparsa dell’alluce valgo può esser ritardata o evitata con l’uso di plantari, un esame posturale che possa indivi- duare cause strutturali extra-genetiche, della fisioterapia fatta in autonomia mediante l’auto-massaggio col rullo e la manipolazione per far muovere l’alluce mantenendo l’asse neutro con le mani.

Dott. Mulè Claudio

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